Ezra Pound 1885-1972 (Corriere della Sera 7.2.2005)
«S’infatuò per il Duce ma non fu mai antisemita Le sue idee su banche e usura sono ancora valide»
La gabbia zoologica («da belva feroce») dove fu rinchiuso nel 1945 a Pisa, prima di sparire per tredici anni nel manicomio criminale di Washington, è stata smantellata. Ma un’altra gabbia relega ancora Ezra Pound fra gli autori proibiti, prigioniero di una disputa infinita tra apologeti e detrattori, oggetto di culto o rimozione. Uno di quei «casi chiusi» che vengono ogni giorno riaperti. Caso politico, per l’appoggio che il poeta dell’Idaho diede a Mussolini e che gli costò l’accusa di tradimento. Caso psichiatrico, perché gli Usa evitarono un pubblico giudizio e una probabile sedia elettrica, inventando per lui una sentenza di follia. Caso letterario, in quanto questo doppio nodo continua a condizionare il riconoscimento critico dell’opera che ci ha lasciato. A sforzarsi di liberare l’ostaggio adesso è Piero Sanavio, con un’indagine - da sinistra - del suo pensiero e con una rilettura della vicenda processuale e dell’incarcerazione. Scopo esplicito: «Trasferire il Dante del Novecento in un’area non reazionaria».
Tentativo appassionato e arduo, il saggio La gabbia di Pound (Fazi editore, pp. 200, 15,50) rischia di suscitare diffidenze. Anzitutto in quella sinistra che, quasi applicando una pena accessoria, resta incerta se confinare i Cantos poundiani - assieme all’opera di altri maledetti come Céline - in una sfera di «arte patologica». Ma pure nella destra, che ha preteso di reclutarlo fra i profeti di ideologie regressive e ultrarazziste.
Sanavio, anglista e romanziere, comincia a esplorare l’universo di «uncle Ez» fin dal primo dopoguerra, «quando certi suoi testi sono considerati alla stregua di corpi di reato e scriverci sopra è come proclamarsi devoti del diavolo». Insomma, «intorno a lui c’è puzza di zolfo sia per gli errori politici sia per la mancanza di chiavi di decodificazione dei versi», e occuparsene «richiede coraggio». Ma lo studioso italiano ne è folgorato e, non appena ottiene il visto per gli Usa e approda a Harvard, stabilisce un contatto con il recluso del manicomio di Saint Elizabeth. Deve tradurre un suo poemetto, gli servono spiegazioni e approfondimenti.
Il poeta lo riceve più volte e, dopo un esordio faticoso nel 1954, tra i due si stabilisce un rapporto nel quale l’ammirazione per quello che Eliot aveva definito «il miglior fabbro» supera il disagio per l’alone sulfureo. Sanavio legge gli atti del processo intentato dal dipartimento di Stato, l’autodifesa del poeta, le perizie degli psichiatri, le testimonianze degli amici. Comincia a formarsi un’idea di che cosa sia stato il «tradimento» e la riassume in questo libro. Nel quale si sforza di non scivolare nell’apologia, riuscendoci. Spiega: «Per un italiano è difficile comprendere che il pensiero eretico di Pound nasceva dal populismo americano del West e del Mid West, dove destra e sinistra si erano pericolosamente confuse all’inizio del secolo, e si nutriva del "diritto alla protesta" sancito dalla Costituzione Usa, e sempre rispettato».
Quello stesso diritto, suggerisce, per il quale molti anni più tardi un’intera generazione avrebbe protestato contro la guerra del Vietnam, senza che nessuno si scandalizzasse. Insomma: la dottrina economica poundiana (ispirata agli studi eterodossi di C. H. Douglas, una sorta di no global ante litteram ) contestava le linee sociali della stagione di Roosevelt, il presidente che lui accusava d’aver oltrepassato i limiti consentiti della prassi democratica, tanto da definirlo «l’approssimazione politica più vicina alla dittatura, negli Stati Uniti». Mentre il regime fascista, anche nella stagione di Salò, ingenuamente gli appariva «non corrotto dalla lebbra capitalistica».
Da queste convinzioni erano fermentati i suoi furibondi discorsi da Radio Roma, nei quali chiedeva al suo Paese di non fare guerra all’Italia, vagheggiava radicali e bizzarre riforme monetarie e denunciava lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e la legge del «denaro che produce denaro», l’usura. E su quest’ultimo fronte era inevitabile che si scagliasse contro i banchieri di Wall Street, che erano in buona parte ebrei.
E qui siamo al punto che non può essere in alcun modo minimizzato, per quante attenuanti si vogliano accordare al poeta. E del resto, neppure Sanavio lo elude: «L’infatuazione per Mussolini fu identica a quella di tanti illustri anglosassoni prima del conflitto mondiale, tutti accecati dalla paura del comunismo. Ma, anche se Pound fece discorsi stupidi, e ne fece, non fu mai antisemita, come dimostrano i rapporti che mantenne fino all’ultimo con parecchi amici ebrei, a partire dal poeta Louis Zukofsky. (...) Non so se è colpevole. So però che i suoi ragionamenti su banche e usura mi sembrano giusti anche ora. E so che, a differenza di gente molto più compromessa di lui, Heidegger in testa, il vecchio Ezra ha pagato un prezzo altissimo, con palesi violazioni di diritti consacrati. La sua divina maledizione di poeta è stata anche la sua "santità" - la stessa di Villon, Rimbaud, Genet, Campana - e implica un rovesciamento dei punti di riferimento e delle moralità consacrate».
«Un uomo che cerca il bene fa il male... non mi sono mai dato al fascismo più di quanto mi sia dato a Joyce... come scrittore sono di tutti e di nessuno», disse Pound negli ultimi anni. E aggiunse, in un soprassalto d’orgoglio: «Se un uomo, qualsiasi uomo, può sostenere d’esser stato trattato da me in modo ingiusto per la sua razza, il suo credo politico o il colore della sua pelle, che quell’uomo si alzi e lo venga a dire».
Poi scelse un tempus tacendi , che secondo la figlia Mary de Rachewiltz andava interpretato come una dichiarazione d’innocenza. Un silenzio durato fino alla morte, nel 1972, a Venezia. Per la corte distrettuale americana che decise di rilasciarlo il 18 aprile 1958, rimaneva «spiritualmente confuso (...) non pericoloso, ma non guarito». Negli stessi giorni Eugenio Montale, raccontando sul Corriere la scarcerazione di quell’ingombrante «scheletro nell’armadio nazionale americano», promise: «Non ho letto né leggerò mai le trascrizioni dei suoi discorsi da Radio Roma. (...) Ma spero nella poesia che lui può darci ancora. Una poesia per poeti».