venerdì, aprile 29, 2005

Si stava meglio quando si stava peggio?

da corriere.it
«Nel Dopoguerra ci fu chi progettò di cambiare la lira. Ma saggiamente Einaudi disse no»
L’economista Franco Spinelli: «Le lezioni dell’introduzione del franco pesante e del sistema decimale per la sterlina»

Il precedente storico è l’unificazione monetaria all’indomani dell’Unità d’Italia . «Ma venne unificata solo la moneta metallica, il mezzo di pagamento di gran lunga predominante rispetto ai biglietti di carta. Per avere le stesse banconote in tutta Italia bisognerà aspettare il 1926», spiega Franco Spinelli, docente di Economia monetaria all’Università di Brescia. Pur essendo tutti denominati in lire e accettati sull’intero territorio nazionale, i biglietti conservano grafica diversa a seconda degli istituti di emissione che li producomo e che fino al 1893, anno di fondazione della Banca d’Italia, sono sei (tra questi la Banca nazionale degli Stati sardi, due banche del Granducato di Toscana e la Banca dello Stato Pontificio). Da quella data in poi ne restano invece tre: oltre a Bankitalia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. E’ Mussolini, nel 1926, a cambiare le cose con un decreto, che autorizza solo la Banca d’Italia a stampare banconote. [leggi il commento all'articolo]

Il secondo passaggio storico è il tentativo (fallito) nel secondo Dopoguerra. «Ci fu un ampio dibattito: c’era chi voleva sostituire le vecchie lire con nuove banconote e chi chiedeva invece solo una sorta di "vidimazione". L’obiettivo era di tassare chi si era arricchito con il fascismo e che, per timbrare le banconote, avrebbe dovuto tirare fuori i biglietti dai materassi», racconta Spinelli.
Tutto era pronto per il changeover . «Presso la Banca d’Italia è depositato un documento in cui è elaborato il piano tecnico per ritirare nella notte l’intera massa di banconote: si sarebbero usati i camion dell’esercito. Erano perfino state preparate le matrici, che furono anche rubate da due operai. Prevalse però l’anima liberale. Fu la saggezza della Banca d’Italia e, in particolare, di Luigi Einaudi ad opporsi all’abbandono della vecchia lira» , dice Spinelli.

Se allarghiamo l’orizzonte all’Europa, sono numerosi i casi in cui assistiamo al passaggio da una moneta a un’altra. La Germania dell’iperinflazione abbandona il marco che non vale più nulla negli anni ’20. In Francia il generale De Gaulle, nel secondo Dopoguerra, adotta il franco pesante. Più recente è l’esempio della Gran Bretagna , che nel 1971 decide di abbandonare la tradizionale divisione della sterlina e dei pence (1-12-20), che risaliva addirittura a Carlo Magno (una sterlina uguale a 12 soldi, un soldo uguale a 20 denari), per passare al sistema decimale. «Ero nel Regno Unito in quel periodo e ricordo le difficoltà delle persone, soprattutto gli anziani, ad abituarsi alla novità. Ci furono addirittura casi di suicidio riportati dai giornali» , ricorda Spinelli.

Nel secolo scorso mancano esempi di unioni monetarie, tutte fallimentari. Nel 1866 nasce l’Unione monetaria latina tra Belgio, Francia, Italia, Svizzera e Grecia : l’intesa prevede un rapporto di 1 a 1 tra le divise degli Stati aderenti, monete e banconote vengono accettate sull’intera area, ma senza unificazione fisica. Ma dopo dieci anni l’accordo è già finito, indebolito sul nascere da problemi politici e commerciali soprattutto tra Francia e Italia. Stesso destino tocca all’unione monetaria tra Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca nel 1870 e al tentativo austro-germanico all’incirca nella stessa epoca. «Il punto è che il cambiamento di una moneta è un passaggio storico delicato che va gestito con grandissima attenzione, perché implica notevoli problemi tecnici e psicologici, oltre che economici», afferma Spinelli. Una preoccupazione che ben si riflette nell’estrema semplicità delle nuove banconote in euro. Essendo tutte uguali per i 12 Paesi, devono essere comprensibili in ogni lingua. Così sono sparite tutte le scritte superflue: c’è solo la parola euro e la scritta della Banca centrale europea.

Giuliana Ferraino
23 agosto 2001

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giovedì, aprile 28, 2005

Bossi e 'il cameriere Ciampi'

"Poi i giornalisti gli hanno chiesto che pensava degli attacchi di Berlusconi alla magistratura contenuti nel discorso per il decennale di Forza Italia. Il leader della Lega ha risposto: "Non credo che si debba andare contro la magistratura: bisogna piuttosto augurarsi che la magistratura vada avanti nel suo lavoro e non si fermi come fece all'epoca di Mani Pulite", che cioè indaghi anche sulla sinistra e sul mondo delle banche. "Occorre piuttosto fare le riforme - aggiunge - viene il momento in cui il giudice vendicatore salta fuori. E' una spinta che la gente favorirà e bisogna che questa volta sia definitiva. Bisogna salvare la gente e anche i romani da Roma ladrona, dall'intreccio di finanza e politica che ha colpito i cittadini e i risparmiatori".

Sembrava una battuta estemporanea, ma poco dopo sul palco ripete quasi le stesse parole: "Bisogna riformare la magistratura ma non attaccarla. In Padania vogliamo anche noi magistrati padani. Ma non si deve sparare contro i magistrati. Le rapine fatte alla gente dall'asse finanza-politica troveranno alla fine un giudice vendicatore". E perché il messaggio sia chiaro, il leader leghista ha anche risposto direttamente a Berlusconi affermando che "la Prima repubblica fu pessima".

A cosa pensi il gruppo dirigente leghista quando parla di "asse finanza-politica" lo avevano esplicitato poco prima, dallo stesso palco, il capogruppo della Lega alla Camera, Alessandro Cè, e l'europarlamentare Borghezio. "Noi padani vogliamo un futuro per i nostri figli e questo deve ricordarselo anche il presidente della Repubblica. Non vogliamo i banchieri corrotti che derubano la gente, non vogliamo chiacchiere, se lo ricordi il presidente della Repubblica altrimenti ci pensiamo noi", ha detto Cè.

Poco dopo Borghezio ha detto: "No all'Europa dei banchieri e del cameriere Ciampi. Noi padani - ha aggiunto - siamo uomini liberi e non servi di Roma. Ficcatelo bene in testa presidente Ciampi". L'europarlamentare si è quindi chiesto per quale motivo il presidente della Repubblica nel suo discorso di fine d'anno non abbia parlato dei risparmiatori. "Noi - ha spiegato Borghezio - non vogliamo rappresentanti istituzionali camerieri del sistema bancario".

Il tema è quello dei risparmiatori vittime degli scandali finanziari della Cirio e della Parmalat, che evidentemente la Lega vuole cavalcare in maniera anche più energica di quanto faccia Forza Italia. In questo senso viene bene anche l'attacco all'euro, non solo "voluto e imposto dai massoni", ma anche " fondamentale per tutte le rapine che ci sono state perché sono arrivati i bond facili senza controllo".
..."
[continua]

mercoledì, aprile 27, 2005

Le banche di Bankitalia padrone della FIAT

da corriere
Al vertice con Marchionne e Montezemolo anche Braggiotti
Banche con Fiat, azioniste a settembre
Gli istituti: sostegno al rilancio. Confermati gli obiettivi industriali e finanziari fino al 2007

MILANO - «È andata benissimo. Clima ottimo». Lo dicono Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne. Lo ripetono i banchieri. Anche, e soprattutto, al di fuori dell’ufficialità. Limitata peraltro a quelle poche parole di commento e affidata, per il resto, a un comunicato congiunto ridotto all’essenziale. Sono le sette e mezzo di sera, il summit milanese tra i massimi vertici della Fiat e degli istituti creditori (Corrado Passera per Intesa, Matteo Arpe per Capitalia, Alfonso Iozzo e Pietro Modiano per il San Paolo, Alessandro Profumo per Unicredito) è appena finito. È durato poco più di tre ore. Sufficienti a tutti i chiarimenti del caso. E a fare piazza pulita di tante speculazioni degli ultimi giorni (ieri in direzione rialzo: +6,73% in attesa dell’incontro).
Il «clima ottimo» non è una definizione di circostanza: l’accordo c’è ed è totale. Sul convertendo: la conversione era stata preannunciata e si farà, dal 26 settembre i tre miliardi di prestito diventeranno tre miliardi di capitale, le banche entreranno individualmente nell’azionariato Fiat, Ifil continuerà a essere il primo socio singolo. E sul piano industriale: sulla strada del risanamento il management del Lingotto ha e continuerà ad avere, «per i prossimi tre anni» almeno, «il pieno supporto e fiducia» degli istituti. Che dimostrano ancora una volta di scommettere sul futuro del gruppo torinese. Convinti dai numeri, dalle tappe, dalle strategie messe a punto dal top management e ribaditi nell’incontro di ieri. Non c’è nulla di nuovo, Montezemolo e Marchionne hanno confermato uno per uno gli obiettivi già annunciati. Ma l’hanno fatto, sottolinea al termine uno dei banchieri, «parlando soprattutto di industria, di prodotto, di modelli». Risultato: «Ci hanno trasmesso la netta sensazione che, nonostante un mercato particolarmente difficile, la situazione sia sotto controllo». Dunque: «Piena fiducia nel management», dal presidente (che ha aperto l’incontro e fatto da padrone ci casa) all’amministratore delegato, al resto della squadra. Tutto liscio, insomma. Qualche tensione alla vigilia, anche tra gli stessi istituti, c’era e nessuno lo nega.
Alla fine però, riconosce un altro banchiere, il primo incontro plenario tra i vertici Fiat (che hanno chiesto l’appuntamento e accanto ai quali è stato segnalato Gerardo Braggiotti) e quelli del pool «è andato persino meglio del previsto». Tanto che, al termine, arriva quel comunicato congiunto in cui i mercati speravano ma che nessuno dei protagonisti, prima, si era spinto anche solo a ventilare. Dice semplicemente: «Sono stati confermati i dati economici e finanziari del gruppo. Fiat ha ribadito l’impegno a conseguire gli obiettivi già annunciati per il 2005, 2006, 2007. Si è confermata la conversione nel mese di settembre 2005 e le banche hanno ribadito la loro volontà di supportare i vertici impegnati nel conseguimento degli obiettivi per i prossimi tre anni». Poche parole, stringate. Sufficienti però, intanto, a mettere un primo punto fermo sulla questione-conversione: le molte speculazioni sulla possibile rinegoziazione finiscono qui, da settembre Fiat avrà tre miliardi di capitale in più e tre miliardi di debito in meno.
Avrà, è vero, anche nuovi azionisti. E anche su questo la speculazione si è scatenata. Ma pure qui le banche, al di là del comunicato, ribadiscono quel che hanno sempre detto: «Non intendiamo gestire la Fiat». Non intendono, però, nemmeno mettere in crisi la stabilità della proprietà e del mercato. Dunque, non ci sarà una sola società in cui far confluire i titoli, le banche dovrebbero amministrare ciascuna per proprio conto i rispettivi pacchetti (poco sopra il 20% se si toglie la quota di Intesa, che di fatto si è già «ricoperta»), Ifil resterà il primo socio singolo. E se, o meglio quando, gli istituti decidessero di cedere le loro azioni, l’impegno sarebbe a farlo gradualmente, nel medio periodo, e non in blocchi anche solo potenzialmente «destabilizzanti».
Raffaella Polato
27 aprile 2005

martedì, aprile 26, 2005

UN MARE DI DOLLARI. FALSI E STRANI.

UN MARE DI DOLLARI. FALSI E STRANI.
di Maurizio Blondet

Una storia stranissima. La polizia delle Filippine (National Bureau of Investigation, NBI) ha arrestato due cittadini britannici che stavano per spedire – tenetevi forte – 3 trilioni di miliardi di dollari falsi. E non si tratta delle comuni banconote, ma di US Federal Reserve Negotiable Certificates, ossia moneta vera e propria della Banca Centrale, in gergo “bearer bonds” (1).
Come ha spiegato il direttore dell’NBI Reynaldo Wycoco, i due arrestati – Paul E.J. Flavell e Sam Beany – sono stati presi sulla base di una segnalazione, il 14 aprile scorso, mentre consegnavano grosse scatole con costole di metallo alla DHL (lo spedizioniere globale) perché fossero recapitate a Zurigo. All’interno, i pacchi di banconote false.
I due hanno pagato con carta di credito (sic), e non hanno opposto resistenza. La polizia filippina sta ora ricercando altri due sospetti, anch’essi di nazionalità britannica, Seki Mehmet Bayram e Peter Whittkamp.

I due arrestati sono stati rilasciati su cauzione.

Strano. Ancora più strano che i cosiddetti “grandi” media americani ed europei non abbiano fatto parola di questo evento.
Tre mila miliardi di dollari falsi sono una cifra enorme, ad occhio e croce il triplo del Pil italiano, e la loro diffusione sui mercati monetari mondiali poteva provocare una catastrofe finanziaria. Ancora più strana la spedizione verso Zurigo. A che scopo?
I falsari, di solito, spacciano le loro banconote diffondendole alla spicciolata in negozi e casinò, e attraverso una catena di “passaggi” più vasta possibile, alcuni dei quali complici volontari che pagano una quota del valore facciale delle monete.
La spedizione a Zurigo invece, e il grosso taglio delle contraffazioni, fa pensare che la destinazione fosse una banca.

A che scopo?
La comparsa di 3 trilioni – a meno che non si tratti di un errore di stampa del giornale filippino - nell’economia Usa può provocare un’inflazione esplosiva.
Chi disponesse di una tale cifra e fosse disposto a “perderla” (cosa non poi tanto importante, se le monete sono false) può far crollare la Borsa di Wall Street.
La presentazione di 3 trilioni di certificati della Federal Reserve all’incasso, attraverso banche di Zurigo, potrebbe per assurdo obbligare la Fed a chiudere lo sportello, perché nemmeno la Banca Centrale Usa ha a disposizione contante o oro sufficiente a pagare una tale cifra.

Chi ha interesse allo tsunami finanziario che ne seguirebbe?
Una delle risposte che corrono su internet è: la Casa Bianca (2). L’Amministrazione Bush ha bisogno di una “attacco terroristico” per giustificare la prossima invasione dell’Iran, e l’operazione-catastrofe organizzata con l’anonimato di banche svizzere sarebbe l’ideale per accusare poi l’Iran del disastro economico americano.
Chi sostiene questa ipotesi fa notare che vigono in Usa “ordini esecutivi” della FEMA (l’agenzia di protezione civile per catastrofi) che consentono al Presidente di sospendere la Costituzione in caso di crisi economica acuta.
Ciò spiegherebbe anche il silenzio dei “grandi” media, avendo l’arresto dei due britannici mandato all’aria il progetto.

A chi scrive viene in mente un’altra ipotesi: forse il sistema bancario internazionale (che ha uno dei suoi cuori in Svizzera) è tanto svuotato e fallimentare da dover ricorrere allo spaccio di moneta falsa per continuare a far funzionare il grande Casinò Globale.
Forse si tratta di nascondere falsi di un disastro già avvenuto a causa dei “derivati”? Il taglio delle note sembra indicare un impiego interbancario.
O sono possibili altre ipotesi? Aspetto suggerimenti dai lettori.
di Maurizio Blondet

Note

1)“2brits nabbed with $3 trillion in fake US fed notes”, Abs-Cbn, 25 aprile 2005. La notizia è molto stringata.
2)“an economic 9-11?”, Whatreallyhappened.com, 26 aprile 2005.

lunedì, aprile 25, 2005

Risiko bancario in mano ai soliti noti

risiko bancario in mano ai soliti noti

I casi Antonveneta e Bnl insegnano come poco sia cambiato nel panorama economico finanziario italiano.
di Giuseppe Turani

Da La Repubblica, rubrica Affari & Politica,
di domenica 24 aprile 2005


MILANO - E’ possibile sostenere che quello italiano è, a tratti, non sempre per fortuna, un capitalismo in guanti gialli? Se ci si riferisce al mondo bancario, senza dubbio. Basta fare l’elenco delle cose successe. Non solo si è offerto al mondo lo spettacolo di comportamenti non proprio specchiati, sono corsi anche dei morti. Quasi a ogni scandalo. Per i più giovani si può ricordare lo scandalo delle banche di Michele Sindona. Scandalo internazionale con, purtroppo, due morti. Quello dell’avvocato Giorgio Ambrosoli (che investigava su Sindona e che per questo fu ucciso da un killer prezzolato) e, successivamente, è morto lo stesso Sindona, nel carcere di Voghera, avvelenato con una tazzina di caffé, non si è mai capito da chi. Probabilmente dai suoi complici.

Più tardi c’è stato lo scandalo dell’impero industriale e bancario di Carlo Pesenti. Dopo anni e anni si è
scoperto che Carlo Pesenti controllava il suo impero con i soldi delle banche controllate da lui stesso. Insomma, si autocontrollava con i soldi dei suoi depositanti. In questo caso, lo scandalo (a cui si è poi posto rimedio) non ha prodotto morti. Va però ricordato che il morto c’era stato prima. L’intero affaire, infatti, è venuto a galla perché un funzionario dello stesso Pesenti, licenziato, si era suicidato in una pensione della Riviera Ligure, lasciandosi dietro alcune lettere nelle quali spiegava i misteri del suo padrone.

Poi abbiamo avuto, e qui è quasi cronaca recente, lo scandalo del Banco Ambrosiano. Altro caso in cui un tipo sveglio, Roberto Calvi, è arrivato a controllare la banca per cui lavorava con i soldi della sua stessa banca. Cattive compagnie e cattivi affari lo hanno portato a finire impiccato a un ponte di Londra. Suicidio o omicidio? Tutti, ormai, sono per la tesi dell’omicidio.

Non vorrei sembrare macabro, ma in questa velocissima ricostruzione potrei aver dimenticato qualche cadavere per così dire minore. Già così, comunque, sono cinque morti in tre scandali.
Ma, anche se per fortuna la sequenza dei morti forse è finita, ci sono stati altri scandali, piccoli e grandi. Ultimi quello Parmalat e Cirio, nei quali le banche qualche ruolo (non bello) lo hanno giocato. Questi due ultimi scandali, fra l’altro, avrebbero dovuto generare una nuova legge (urgentissima) sul risparmio, ma di essa ancora non si ha notizia.
Abbiamo, in conclusione, una certa tradizione finanziaria effettivamente un po’ in guanti gialli (qualche volta anche con venature rosso sangue). E è anche per questa ragione che, con gli anni, avremmo dovuto imparare a comportarci in modo assolutamente limpido e corretto. Invece non è così. Si continua nel voler fornire al resto del mondo lo spettacolo di un ambiente finanziario dai contorni imprecisi e dalle regole poco chiare.

Mi riferisco, come è ovvio, alle recenti polemiche Sulle Opa lanciate nei confronti di due banche italiane.
Nel caso della Bnl, ad esempio, si fa finta di non vedere che i soci del famoso contropatto (vicini al 30 per cento) sono soci industriali che ormai hanno in mano poco meno di un terzo dell’istituto mentre per legge dovrebbero stare ben al di sotto.
Ma le cose più gravi si stanno verificando nel caso Antonveneta. Qui siamo in pieno clima da capitalismo in guanti gialli. Da una parte c’è il governatore della Banca d’Italia che, invece di fare l’arbitro, autorizza (e anche promuove) riunioni in cui vari soggetti si coalizzano per opporsi all’Opa dell’Abn Ambro. E già questo è molto singolare. Poi si legge che la Consob sta disperatamente cercando di capire se tutti questi oppositori siano in concerto fra di loro (nel qual caso dovrebbe obbligarli a lanciare un’Opa a loro volta) oppure no. E si casca dal ridere. Forse basterebbe chiedere al governatore Fazio.

Ma non basta. Di fronte a un assalto che viene portato nei confronti dall’estero in base alle leggi e alle consuetudini dei mercati più maturi e sperimentati (una semplice Opa, con tanto di prezzo prefissato e di prospetto), ci si oppone con un formicolio di soggetti un po’ strambi (pochissimi dei quali quotati, forse nessuno, con bilanci che valli a trovare e a capire), legati fra di loro da un labirinto di intrecci finanziari da far venire il capogiro a chiunque.

Tutti questi si vantano sui giornali di aver già raggiunto una quota di azioni Antoveneta pari al 40 per cento, e quindi fanno sapere di avere già sconfitto la banca olandese Abn Ambro. Peccato che sopra il 30 per cento sia obbligatorio lanciare un’Opa sul 100 per cento delle azioni. Ma questi signori, difensori dell’italianità dell’Antoveneta, avranno i guanti galli, ma non hanno i soldi. E allora l’Opa non la lanciano, sostenendo che si conoscono, vanno a braccetto insieme, ma che si sono trovati a comprare azioni Antoveneta quasi per caso. E quindi non vale la regola dell’Opa obbligatoria. Poiché su tutti i giornali italiani e stranieri sono invece descritti, come è ovvio, come un gruppo che fa affari in comune da una vita e che in questo affare dell’Antonveneta è solidale e compatto come non mai, si sente odor di bruciato lontano un chilometro.

Insomma, i soliti italiani, siamo amici, ma guarda anche lei qui sull’Antoveneta, che combinazione, vuole un aperitivo? E la signora come sta? Mi saluti lo zio.



(25 aprile 2005)

mercoledì, aprile 20, 2005

Denunciati dipendenti di banca: obbligavano ad aprire un C/C per cambiare un assegno

Titolo: ESIGONO L’APERTURA DEL CONTO CORRENTE PER CAMBIARGLI UN ASSEGNO: BANCARI DENUNCIATI

Data: 15/04/2005
Autore: Ufficio stampa (l.c.)
Testo: ROMA - Due dipendenti di una filiale romana del Banco di Brescia, un impiegato e il vice direttore, sono stati denunciati dagli agenti del commissariato Prenestino di Roma per rispondere del reato di appropriazione indebita.
Secondo quanto accertato dagli investigatori, la banca si e' rifiutata di cambiare un assegno non trasferibile all'intestatario poiché, a loro dire, non vi erano i presupposti per la sua identificazione, proponendo quindi di aprire presso la loro filiale un conto corrente che avrebbe però comportato la spesa di almeno cento euro per l’apertura e chiusura. La vicenda è iniziata un mese fa quando uno studente romano di 23 anni ha ricevuto da un’agenzia assicurativa un assegno bancario come rimborso per un incidente stradale. La somma rimborsata era di quattromila euro e il giovane si è presentato presso la filiale del Banco di Brescia a Largo Colli Albani. L’impiegato allo sportello non ha cambiato l'assegno nonostante il 23enne avesse presentato la propria carta d’identità e la patente. Il giovane un’ora dopo è tornato nella stessa banca con la madre ed un amico per garantire la sua identità. Anche in questo caso però sia l'impiegato che il vice direttore hanno deciso di non cambiare l’assegno asserendo che un regolamento interno alla banca prevede che per riscuotere assegni di importo superiore a 516 euro l'utente deve necessariamente aprire un conto corrente. Il giovane si è così rivolto alla polizia e al termine degli accertamenti, gli agenti del commissariato Prenestino, diretti da Maurizio Simone, hanno denunciato alla procura della repubblica di Roma i due dipendenti della banca per appropriazione indebita. (l.c.)

La Chiesa e la "Finanza bianca".

Nel nuovo libro dell'economista Giancarlo Galli le luci e le molte ombre della finanza cattolica
Banchieri di Dio o del diavolo?

NICOLA LEONI
Banchieri di Dio, come vorrebbero fare pensare le loro radici culturali cattoliche, o banchieri del diavolo, come invece farebbero credere i non isolati scandali e l'immagine che di loro hanno gli anticlericali, che li dipingono come ipocriti maneggioni? Si tratta naturalmente dei finanzieri cattolici, la cui storia dal dopoguerra a oggi viene raccontata dall'economista Giancarlo Galli nel suo ultimo libro, Finanza bianca - La Chiesa, i soldi, il potere, edito da Mondadori. Galli non è certo tenero nei confronti di coloro, in un mondo che mescola Chiesa, economia e politica, si sono resi protagonisti di scandali e storture, ma nemmeno prevenuto nei confronti della finanza e dei finanzieri cattolici in quanto tali.
Il volume segue la storia dell'economia italiana, ma anche vaticana e mondiale, dalla nascita della Repubblica italiana, con la presa di potere della Democrazia Cristiana anche nel mondo finanziario, un'operazione orchestrata da Amintore Fanfani, passando per le vicissitudini dell'Istituto per le Opere di Religione, la banca della Santa Sede, raccontate dallo stesso presidente, Angelo Caloia, per l'egemonia nella finanza italiana di personaggi, che si dichiarano cattolici, come Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia, Cesare Geronzi, leader di Capitalia, e Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa. Fino ad arrivare ai crac dei bond argentini, Cirio e Parmalat, scandali in cui le banche cattoliche hanno una gravissima responsabilità.
Ma il protagonista del libro di Galli è proprio il leader dello Ior, "sopravvissuto" alle numerose trappole tesegli dall'ambiente curiale romano e anche da qualche porporato, riuscendo nel contempo a risanare la banca vaticana dopo la gestione di monsignor Marcinckus. È «tutto del cardinale Casaroli il merito della rivoluzione allo Ior». Paul Marcinkus è stato «facilone e mal consigliato» - ma non si mise una lira in tasca - e non è vero che fosse stato sostenuto da Paolo VI. Monsignor De Bonis organico a Marcinkus e non suo antagonista, come invece lo percepirono i cronisti dell'epoca, anzi: suo principale "cattivo consigliere".
Angelo Caloia, dall'89 alla guida dello Ior, dopo lo scandalo internazionale che rischiò di travolgere la banca del Papa, si racconta a Galli nel capitolo più ampio e interessante del libro dedicato ai finanzieri cattolici.
Caloia, «pio e riservato cattolico lombardo», 65 anni, una moglie irlandese, quattro figli e quattro lauree, solitamente abbottonatissimo, rompe il silenzio che lo ha distinto in questi anni. Molto racconta e molto altro lascia intuire dello scandalo della banca del Papa, del risanamento voluto da Casaroli e osteggiato dal vecchio gruppo dirigente - non solo Marcinkus e de Bonis, ma anche il direttore generale Luigi Mennini e il ragioniere capo Pellegrino De Strobel, travolti dall'inchiesta giudiziaria e con i passaporti ritirati - e delle fasi successive e meno note alla cronaca, dalla stesura del nuovo statuto dello Ior, a come ne sia rimasto alla guida nonostante due tentativi di estrometterlo.
Ma Caloia è riuscito anche al temuto "braccaggio" di Mani Pulite, al "tintinnio di manette" che risuonò anche per lui durante l'inchiesta Enimont, la "madre di tutte le tangenti" che lambì senza conseguenze la banca del Papa nel '93, a causa di 108 miliardi in certificati del Tesoro transitati dallo Ior attraverso Luigi Bisignani, «che presso la Banca vaticana disponeva da anni di un conto personale, chiedendo di accreditare il ricavato su un contro cifrato estero».
I «titoli erano buoni e il cliente affidabile», tant'è che lo Ior ne uscirà pulito, ma quando Caloia riceve una telefonata del procuratore capo Borrelli ha «una gran paura di sentir tintinnare le manette» anche se «la coscienza era del tutto a posto: pur tranquillo - racconta - mi premunii, agendo d'impulso: da banchiere del Vaticano, cercai conforto e riparo là...'». Caloia infatti si appella al fatto di lavorare per uno Stato estero e di dover consultarsi con questo, cala a Roma da Milano, si rifugia in Vaticano e lì, dopo un colloquio con l'amico monsignore Renato Dardozzi, chiede la rogatoria internazionale. Così la situazione si risolve con uno scambio di lettere in cui lo Ior fornisce ogni informazione e chiarisce tutto.
«Nemmeno oggi sappiamo a chi erano destinati quei bonifici - riferisce Caloia - peraltro chi aveva impartito l'ordine, Bisignani, era un vecchio cliente, che avevamo ereditato».
La lezione serve al banchiere a «completare l'opera di rinnovamento», anche setacciando i clienti dello Ior per evitare «responsabilità pregresse». E oggi Caloia considera quel "tintinnio di manette" «un bene: lo Ior ritrovò totale fiducia» e fu impresa più difficile nella Chiesa e tra i religiosi che presso l'«establishment finanziario, italiano e internazionale».
Vittorioso grazie all'appoggio di Casaroli nello stendere il nuovo statuto, promulgato da Giovanni Paolo II nel '90, e «toltosi dal cuore il peso delle accuse di riciclaggio» nel '93, Caloia subisce nel '94 la manovra congiunta De Bonis-Castillo Lara (il cardinale allora presidente dell'Apsa - Amministrazione patrimonio della Santa Sede) per sostituirlo alla fine del mandato con l'americano Virgil Dechant. Castillo Lara preme anche perché lo Ior faccia merchandising religioso, ma Caloia si oppone. La spunta lui e de Bonis viene spedito a far da cappellano ai cavalieri di Malta.
Nel '99 altro assalto alla sua plancia di comando dello Ior, da parte del cardinale americano Edmund Szoka, che lo vuole sostituire con il presidente uscente della Bundesbank, Hans Tietmeyer. Caloia si salva di nuovo grazie all'appoggio del segretario del Papa, monsignor Stanislao Dziwisz. A un anno dalla scadenza del terzo mandato Caloia appare saldo sulla sella della banca del Papa.
Ma se lo Ior, dopo i momenti bui, è riuscito grazie alla guida di Caloia e di prelati lungimiranti a tornare "immacolato", non si può dire lo stesso di altre realtà fondate su finanza e religione, dove invece sembrano ancora regnare le ombre. «Il Gruppo Cultura Etica Finanza - scrive Giancarlo Galli nella conclusione del suo libro - ha in larga misura cessato di "far cultura". Non più libri, ricerche come quella sul "declino italiano" che viaggiano senza precise scadenze. Soggiacendo alle sottili lusinghe di patron Bazoli, s'è politicamente schierato a fianco del centrosinistra, in qualche momento financo aggregandosi all'iniziativa di "Libertà e Giustizia" sponsorizzata da Carlo De Benedetti. Dove sono finite le ricerche sulle origini del cattolicesimo sociale? In Roma-capitale, altri banchieri "bianchi" di spicco (dal governatore Antonio Fazio a Cesare Geronzi) sono nel mirino della magistratura. Lacune nella vigilanza, operazioni che hanno penalizzato la clientela... A dozzine, presidenti, amministratori delegati, direttori generali, funzionari di altissimo livello ricevono "avvisi di garanzia". "Atti dovuti", nel linguaggio giudiziario, e probabilmente avranno modo di dimostrare la loro innocenza. Tuttavia, milioni di risparmiatori, attraverso associazioni di autodifesa, manifestano la loro disapprovazione per l'operato delle banche. Il governo s'appresta (obtorto collo, consenziente anche l'opposizione) a varare provvedimenti a tutela del risparmio e di riforma della Banca d'Italia».
«Riprendiamo per l'ennesima volta l'affermazione di Angelo Caloia: "Il diavolo esiste, eccome!". Evidentemente, ha da averci messo la coda se un "sistema finanziario" dove esponenti del mondo cattolico presidiano tanti punti chiave non ha saputo arginare il dérapage affaristico. Ci si interroga sugli "errori tecnici" (l'avere ad esempio privilegiato le concentrazioni a spese della presenza sul territorio; l'eccessiva disponibilità per gli "amici", come nei casi Cirio e Parmalat). Ma quel che si delinea è soprattutto una Caporetto etica, che divide la stessa Chiesa. A Parma, don Luigi Scaccaglia, prete di frontiera, lancia una provocazione: "Tanzi ha dato i soldi per i restauri del Duomo? Dobbiamo trovare il modo di restituirli". Gli fa eco il parroco di Santa Cristina: "La famiglia Tanzi, è vero, faceva offerte, ma oggi si parla di quattrini rubati. Quindi dobbiamo cambiare rotta. La nostra Chiesa sarà credibile solo se povera e non collusa". Eppure, il buon vescovo parmigiano Cesare Silvio Bonicelli aveva invitato alla pacatezza: "La cosa più importante è pensare e cercare di capire, senza lasciarsi catturare dalle emozioni. Stare accanto a chiunque sia coinvolto, senza giudicare né escludere"».
«È possibile riflettere senza giudicare (sul terreno dell'etica)? Viene quasi da pensare che non poca parte di quel che ha seminato in oltre vent'anni Angelo Caloia - prima al Mediocredito lombardo con il Gruppo Cultura Etica Finanza, poi allo Ior - sia volato via, o beccato dai corvi di passaggio. Comunque, che qualche seme sia rimasto, e prenda presto a fruttificare, è più che un augurio, una speranza. Infatti, mai come nel nostro tempo vi è necessità di una "finanza bianca". Ben oltre, però, un'etichetta che si va rivelando in troppi casi di comodo».
«Sarebbe desolante constatare come, nonostante il cambio delle casacche di appartenenza, i comportamenti dei banchieri siano sempre gli stessi. Autoreferenziali nella sfera del potere, disinvolti nelle relazioni politiche, abili nel districarsi nella giungla di affari-affarismo, generosi coi ricchi, stemegna - tirchi - coi piccoli imprenditori. E i risparmiatori eterne pecorelle da tosare, ben poco evangelicamente».
«C'è da augurarsi, per il bene comune, trattarsi di una difficile, tormentata stagione di transizione. Verso una finanza davvero "etica". Parola che in Italia, al momento, ha il suono della campana stonata perché rotta. Molti conoscendone, valutando sincero il loro animo, si diano però da fare. E subito. Ha ragione da vendere il "Nanni" Bazoli quando plaude all'abbattimento degli steccati».
«Si tratta però di capire, nei comportamenti concreti, qual è il contributo che i "banchieri bianchi" possono fornire alla crescita della società. Senza arzigogolare, a costruirsi alibi, sulla spietatezza dei mercati. Sotto altri cieli, dagli Usa al Giappone, c'è chi sta provando. Attendiamo dunque che i "bianchi banchieri" di casa nostra raccolgano la sfida. Conquistato il potere, lo usino!».

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Il banchiere del papa racconta: “Ecco come ho risanato lo IOR”
Data Mercoledì, 20 Aprile 2005 - 11:31

Dopo quasi quindici anni di presidenza della banca vaticana, Angelo Caloia rompe il silenzio. Fa i nomi di amici e nemici. E accusa la finanza cattolica d’aver venduto l’anima per il potere.

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Giovanni Paolo II non s’è mai occupato di soldi, non ha un proprio conto in banca e tanto meno s’è arricchito. Ma lascerà al suo successore una lauta eredità: un Vaticano con i conti a posto, i profitti floridi, gli amministratori fidati.

Sono quattro, in Vaticano, gli uffici finanziari chiave. In ordine di importanza sono lo IOR, Istituto per le Opere di Religione; l’APSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica; il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; la Prefettura degli Affari Economici. A capo di ciascuno c’è un cardinale. Ma con un’avvertenza. Perché allo IOR, la banca vaticana, c’è sì una commissione cardinalizia di vigilanza, con alla testa il segretario di stato Angelo Sodano, ma il vero uomo di comando è un’eminenza laica di 64 anni venuto dalla Lombardia, con moglie inglese e quattro figli, il banchiere Angelo Caloia.

Caloia è una leggenda di riservatezza ed è personaggio ai più sconosciuto. Ma per la finanza vaticana è il parallelo perfetto di quel che è il cardinale Camillo Ruini per il governo della Chiesa in Italia: l’uno e l’altro autori di una doppia rivoluzione.

Anche nelle date Caloia e Ruini hanno sempre viaggiato in parallelo. Diventano l’uno presidente dello IOR e l’altro presidente della conferenza episcopale all’inizio degli anni Novanta e, riconfermati di quinquennio in quinquennio, sono tuttora alla testa dei rispettivi organismi. Entrambi hanno cominciato le loro battaglie isolati, con molti più avversari che amici. Entrambi hanno vinto.

La differenza è che oggi Caloia ha deciso di rompere il silenzio: con tanto di nomi, giudizi, retroscena sulla sua storia di banchiere del papa, per la prima volta messi nero su bianco.

L’outing di Caloia è in un libro scritto da un suo amico e collaboratore d’antica data, Giancarlo Galli. Lo pubblica Mondadori, la stessa editrice dell’ultimo best seller del papa, ed è in vendita dal 22 giugno. Il titolo è “Finanza bianca” e si riferisce a quell’insieme di banche e banchieri cattolici che a Roma e in Italia hanno oggi accumulato un potere senza precedenti: con Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia, con Cesare Geronzi dominus di Capitalia, con Giovanni Bazoli presidente di Banca Intesa, con i templi finanziari laici caduti nelle loro mani o assediati.

Caloia è parte di questa finanza bianca, è da lì che è venuto. Ma nel libro non la esalta per gli attuali trionfi. Anzi. La accusa d’aver venduto l’anima per ottenerli, d’aver smarrito la sua “identità cristiana”. La prova è nel coinvolgimento delle banche cattoliche nei colossali disastri di Parmalat, Cirio e simili: una “Caporetto etica” dalla quale invece, dice, è rimasto immune lo IOR. Partito isolato nella sua battaglia per ripulire e rilanciare la banca vaticana, Caloia lamenta oggi di ritrovarsi di nuovo solo, a far da baluardo di una finanza moralmente corretta.

Quando Caloia inizia la sua lunga marcia, nei primi anni Ottanta, il Vaticano è in pieno dissesto, al pari dei finanzieri cattolici con i quali aveva condotto pessimi affari: Michele Sindona e Roberto Calvi. Alla testa dello IOR regnano un arcivescovo americano, Paul Marcinkus, che Caloia definisce “facilone, pressapochista, mal consigliato”, e un prelato italiano che è tra gli autori di quei cattivi consigli, Donato De Bonis. Lo IOR è assediato dai creditori, e nel 1984 il cardinale Agostino Casaroli, il segretario di stato dell’epoca, li tacita una volta per tutte versando 406 milioni di dollari a titolo di “contributo volontario”, sfidando il parere contrario non solo di Marcinkus e De Bonis ma di quasi tutti i dirigenti vaticani.

Quello stesso anno, a Milano, anche la buona finanza cattolica decide di risalire la china. Lo fa dando vita a un Gruppo Cultura Etica Finanza. Si riunisce in via Broletto, a pochi passi dal Duomo, e di esso fa parte anche un vescovo, Attilio Nicora, ausiliare del cardinale Carlo Maria Martini. Nel gruppo figurano intellettuali destinati a ruoli di peso: come il gesuita GianPaolo Salvini, futuro direttore della “Civiltà Cattolica”, e Lorenzo Ornaghi, futuro rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra i banchieri, Bazoli è il predicatore più acceso della riscossa contro la finanza laica e il suo potentissimo nume Enrico Cuccia. A coordinare il tutto è Caloia, con Galli segretario.

Caloia è presidente del Mediocredito Lombardo e punta più in alto, alla CARIPLO, una delle più grosse Casse di Risparmio del mondo. Ma tra i cattolici c’è chi gli sbarra la strada, e nella curia di Milano gli rema contro monsignor Giuseppe Merisi. “Nemo propheta in patria”, dice oggi Caloia rievocando quella battaglia perduta. Perché invece che a Milano il suo futuro è a Roma. Nel 1987 e poi nel 1988 si presentano da lui emissari del Vaticano. A nome del cardinale Casaroli vogliono che prenda in pugno lo IOR.

Non solo. Casaroli gli chiede di riscrivere gli statuti della banca vaticana. Caloia accetta e si mette al lavoro. È fatta. Nel 1990 Giovanni Paolo II promulga i nuovi statuti, Marcinkus lascia Roma e si ritira in una parrocchia dell’Illinois, Caloia diventa presidente del nuovo consiglio di sovrintendenza dello IOR. A nominarlo sono gli altri quattro banchieri del consiglio: un tedesco, uno svizzero, uno spagnolo e un americano. Lo svizzero è Philippe De Weck, ex presidente dell’Union de Banques Suisses, vicino all’Opus Dei e frequentatore a Milano del Gruppo Cultura Etica Finanza. È lui il grande elettore di Caloia.

Ma alla macchina dello IOR resiste la vecchia guardia: il prelato De Bonis, il direttore generale Luigi Mennini, il ragioniere capo Pellegrino De Strobel. Questi due sono i primi a saltare. De Bonis non cede. A norma del nuovo statuto dovrebbe fare solo assistenza spirituale, in realtà continua i suoi affari come in passato.

De Bonis si allea in Vaticano con l’allora presidente dell’APSA, il cardinale Rosalio José Castillo Lara, e col segretario di quell’organismo, monsignor Gianni Danzi, e manovra per sostituire a Caloia, al termine del suo primo quinquennio di presidenza, un suo candidato, l’americano Virgil C. Dechant, dei Cavalieri di Colombo e grande finanziatore di Solidarnosc in Polonia. Castillo Lara e Danzi premono anche perché lo IOR faccia merchandising religioso. Caloia rifiuta e riceve dal cardinale una raffica di lettere al veleno. Ma alla fine la spunta. De Bonis è spedito a far da cappellano ai Cavalieri di Malta, Caloia è riconfermato presidente nel 1995 per altri cinque anni e Castillo Lara lascerà presto l’APSA.

Nel 1999, altra manovra. Questa volta il candidato a rimpiazzare Caloia è nientemeno che il presidente uscente della banca federale di Germania, la Bundesbank, Hans Tietmeyer, e il suo promotore è il cardinale americano Edmund Casimir Szoka, all’epoca presidente della Prefettura degli Affari Economici del Vaticano. A mettere sull’allarme Caloia è monsignor Renato Dardozzi, dell’Opus Dei. A una conferenza di Tietmeyer alla Pontificia Accademia delle Scienze, Caloia si alza a criticarne le tesi ultraliberiste. Tra i due scoccano scintille. Ma di nuovo è Caloia a vincere la sfida, forte anche dell’appoggio del segretario personale del papa, Stanislaw Dziwisz.

Nel 2000 Caloia è riconfermato presidente, e l’ultima parola a suo pro l’avrebbe detta Giovanni Paolo II: “Finché vivo io, mai un tedesco alle finanze vaticane”. Ma più che il cuore polacco, a convincere il papa sono i proventi dello IOR a lui devoluti ogni anno per opere di bene. Erano 15 miliardi di lire nel 1990, all’inizio della gestione Caloia. Oggi sono “molti, molti di più”.

Nel 2005 scadrà il terzo quinquennio di Caloia, e nessuno questa volta trama più per cacciarlo. All’APSA c’è ora il suo amico Nicora, divenuto cardinale, con segretario il vescovo Claudio Maria Celli, uomo di Casaroli e Sodano. Al Governatorato Szoka ha passato i limiti d’età e un candidato a succedergli è Carlo Maria Viganò, legatissimo a Sodano e Nicora. Resti o no Caloia presidente, il suo IOR, almeno questo, non passerà certo al nemico.

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I misteri della "finanza bianca"
Dallo Ior ai "banchieri di Dio"

Dalla fondazione dello Ior, la "banca del Papa", fino al crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, la storia moderna insegna che tra Chiesa e mondo degli affari esistono rapporti forti. Da questo intreccio sono nati tanti misteri che hanno appassionato le cronache economiche del Belpaese e che ora Giancarlo Galli ripercorre nel suo lucido e documentato libro-inchiesta "Finanza bianca", edito da Mondadori.

Una vera “doccia fredda” per chi ancora, un po’ ingenuamente, si ostina ad avere una visione evangelica della Chiesa cattolica. “Il Vaticano è l’unica teocrazia a possedere una propria banca di livello mondiale”: da questa considerazione parte Galli per dimostrare che il legame tra religione e affari è profondo e simbiotico.

Partendo dalla storia, dalla dissoluzione dello Stato Pontificio, si ripercorrono le tappe che portano la Curia romana, ormai ufficialmente privata del suo potere temporale, a costruire un potere finanziario. Un potere nuovo, ma comunque forte e che vive soprattutto di relazioni e sfere di influenza.

Ne emerge un quadro in cui gli uomini del Vaticano dimostrano di sapersi muovere molto abilmente sullo scenario internazionale degli affari. Al centro di un sistema che può contare su tante pedine di alto livello. Lo Ior è il cuore della potente e onnivora “finanza bianca”, i “banchieri di Dio” sono le figure di riferimento nei grandi gruppi creditizi non solo italiani.

Insomma, nella Chiesa di cui ci parla Galli si fa davvero fatica a ritrovare tracce dello spirito pauperistico delle origini cristiane o della tradizione francescana. C’è piuttosto il trionfo di un approccio pragmatico che ricorda la “realpolitik” di Bismarck o gli insegnamenti del Guicciardini. E il Vaticano finisce inesorabilmente per assomigliare ad una holding. Gestita con grande maestria unita ad una discreta dose di spregiudicatezza.

Certo, oggi lo Ior non è più quello degli anni settanta e ottanta, oggi non è più in servizio un uomo come Marcinkus, ma chi pensa che la finanza bianca sia finita dovrebbe rileggersi, molto attentamente, la vicenda Parmalat.

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L'autore mette in guardia i lettori: «Sarà un volume indigesto per i benpensanti e per molti esponenti dell'Alta finanza»
«Qualcuno s'è dimenticato dei Comandamenti»

Pubblichiamo del libro di Giancarlo Galli Finanza bianca la prefazione, intitolata "A uso del lettore".
GIANCARLO GALLI
Il lettore sia avvertito. Le pagine che s'appresta a sfogliare hanno tutte le caratteristiche per risultare acide e fastidiose. Indigeste al fariseismo dei cosiddetti benpensanti, mentre liberi pensatori e anticlericali non verranno gratificati con scoop o sconvolgenti rivelazioni. Quanto agli esponenti dell'Alta finanza, nella stragrande maggioranza ne avrebbero volentieri fatto a meno. Per questo ho da esprimere la massima gratitudine a quei pochi che, infrangendo il tabù del silenzio, mi hanno fornito aiuto. Col nobile intento di servire la Verità. L'impresa è di quelle che generano fibrillazioni e fanno accartocciare le budella: pretendere di scandagliare le connessioni fra religione e finanza, ecclesiastici e banchieri. Senza intenti moralistici o scandalistici, ma unicamente per capire (ammesso sia possibile) quello che avviene nella più misteriosa fra le galassie terrene.
D'altronde il libro è, in vari aspetti e risvolti, il giornale di bordo di un cronista che, per quasi mezzo secolo, ha navigato sulle rotte dell'Alta finanza, incrociando ammiragli in feluca e corsari, tonache lunghe con bottoniera rossa benedicenti i vascelli in partenza e arrivo, salvo sostenere che "solo per caso" si trovavano sul molo, o in plancia...
Sappia da subito il lettore che, a parte qualche doveroso accenno retrospettivo (gli intrecci fra religione e danaro affondano le radici nella millenaria storia dell'umanità), qui ci occuperemo del passato prossimo e, soprattutto, del presente, un "presente" nel quale il problema è emerso in tutta la sua dimensione planetaria. Specie dopo 1'11 settembre 2001, quando s'è dovuto pubblicamente ammettere che il terrorismo internazionale di matrice islamica si finanziava attraverso i circuiti dei mercati capitalistici, godendo di connivenze d'ogni sorta.
Purtroppo, di tali intrecci s'è scritto e detto assai poco, se si trascura la pamphlettistica specializzata in dietrologia, il che ha favorito la formazione di un gigantesco "buco nero", come si dice in astrofisica, ovvero uno scontro fra materia e ideologia. È invece necessario ragionare sui perché, in piena età moderna, un papa di Roma, un mullah o un rabbino possano far tremare Wall Street e la City.
La finanza ama proclamarsi laica, facendo suo quel principio che vorrebbe escludere ogni influenza della religione dalla vita e dalle istituzioni politiche, civili, economiche. E un po' tutti in Occidente e in Asia (non però nell'lslam), credenti o meno, ne esaltiamo la laicità.
Vero o falso? Il dubbio m'ha colto non una ma cento, mille volte, allorché da New York a Londra, da Parigi a Tokyo (e, ovviamente, da Milano a Roma), ho sentito non sussurrare ma sostenere: A ha alle spalle la finanza ebraica, B quella cattolica, C quella protestante, Y manovra i petrodollari islamici... E gli atei, gli agnostici, ben presenti nelle schiere degli gnomi? Nemmeno loro potevano prescindere da ascendenze e referenze.
Se le parole hanno un senso, stretti rapporti tra finanza e religioni esistono. Esistendo, occorre stabilire in cosa si concretizzano. Fossi nato e cresciuto sotto altri cieli, avrei probabilmente privilegiato l'analisi del rapporto fede-danaro in emisferi diversi. Avrei forse seguito le orme di Max Weber, che fa del protestantesimo la culla del moderno capitalismo anglosassone. O accettato il disinteresse indù, buddista e confuciano per il maneggio della ricchezza. Oppure, figlio dell'Islam, sarei stato indotto a coniugare l'opportunismo delle classi dirigenti con la sharia.
Le radici cristiane e cattoliche m'hanno portato invece a focalizzare lo sguardo su quanto avviene sotto l'usbergo di Santa Romana Chiesa, con una speciale attenzione all'Italia e al Vaticano.
Nel novero delle potenze mondiali, l'Italia occupa una posizione economicamente e finanziariamente secondaria, sebbene non irrilevante. Se passiamo dal materiale allo spirituale, il suo prestigio e la sua influenza appaiono invece di primissima grandezza. Le parole del Santo Padre sono pietre. I suoi strali contro il capitalismo, il consumismo, il culto della ricchezza fanno tremare le vene ai credenti. Ma dopo i fremiti e le contrizioni, che accade? E, questione non marginale, in che modo si caratterizza lo Ior, l'Istituto per le Opere di Religione, la banca del Vaticano? Tanto più che, e non è un "dettaglio", il cattolicesimo è l'unica religione a disporre di una "propria" banca.
Eccoci pertanto di fronte all'intrigante questione che costituirà la parte centrale, dominante, del libro: al di là degli auspici del pontefice, lo Ior è davvero una "banca cristiana"? Ancora: i tanti banchieri che in Italia ed Europa proclamano la loro fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa, come si distinguono dai colleghi laici?
Il lettore avrà compreso, quantomeno intuito, il nostro intento: cercare di gettare un fascio di luce sul terreno, nebbioso e inesplorato, delle relazioni intercorrenti fra religione e finanza. Per i cattolici, fra il "sono timorato di Dio" e il "faccio i soldi", insomma fra Dio e Mammona. Risultando assolutamente falso che il danaro sia lo sterco del demonio, come spesso qualcuno vuol far credere; trattandosi piuttosto di un buon concime che, se ecologicamente usato (in senso etico), può aiutare l'umanità a crescere nel segno di una maggiore giustizia distributiva.
Purtroppo, negli ultimi tempi, nella galassia finanziaria italiana si sono verificati ben poco edificanti eventi. Ci riferiamo agli ottocentomila piccoli risparmiatori che hanno perso tutto con i bond argentini, i crac Cirio e Parmalat. E non per colpa del "cinico mercato", ma in quanto anche alcuni "buoni cattolici" s'erano dimenticati dei Comandamenti, dal "non rubare" al "non rendere falsa testimonianza", o erano incorsi nel mortale "peccato d'omissione", cioè non avevano effettuato i controlli cui erano preposti.
Il che fa temere il ripetersi di errori che speravamo relegati nel passato. Dando fiato all'interrogativo che molti laici propongono: è davvero senza macchie la nuovissima "finanza bianca"?

martedì, aprile 19, 2005

Rothschild in azione: Mi vuoi comprare? a me?!? Ma io me te compro a te!!!

L'annuncio ieri sera.
In mattinata la notizia di un'offensiva
dei Rothschild contro il vertice di Francoforte


La Borsa tedesca si arrende
"Ritiriamo l'offerta su Londra"
L'attuale vertice di Deusche Boerse rinuncia all'acquisto
del London Stock Exchange. Ora si riparte da zero sui negoziati
di ANDREA TARQUINI

BERLINO - Disfatta tedesca nella guerra per dominare le Borse europee. Deutsche Boerse, cioè la società per azioni che controlla la Borsa di Francoforte e piazze d'affari minori in Germania, ha ritirato ieri sera la sua offerta pubblica d'acquisto per il London Stock Exchange, la Borsa di Londra.

La notizia è arrivata al culmine di una giornata di voci, illazioni e tensioni sui mercati. Secondo la Frankfurter Allgemeine, infatti, l'illustre casato dei Rothschild era sceso in campo contro Deutsche Boerse e i suoi piani di scalata.

E' una secca sconfitta quella incassata ieri sera dal presidente di Deutsche Boerse, Werner Seifert, e dal capo del Consiglio di Sorveglianza della società, Rolf-Ernst Breuer, ex numero uno di Deutsche Bank. In un comunicato diffuso alle agenzie di stampa via e-mail, Deutsche Boerse informa di aver rinunciato alla sua scalata alla Borsa di Londra, che se fosse stata coronata da successo avrebbe fatto dei tedeschi i signori del mercato azionario europeo.

La decisione, dice il comunicato, è stata presa perché il London Stock Exchange (Lse) ha nuovamente respinto, giudicandola "non consigliabile ai suoi azionisti", l'offerta tedesca di rilevare il Lse stesso pagando 530 pence per ogni azione. Cioè circa due miliardi di euro in tutto.

Riparte quindi da zero il grande valzer di negoziati per alleanze e fusioni tra le Borse europee, una disfida carica di thrilling tra il capitalismo anglosassone basato a Londra e quello tedesco. Sia Londra sia Francoforte, a questo punto, hanno fretta di rafforzarsi l'una contro l'altra. E cercano patti con Euronext, l'alleanza-cartello delle Borse francese, belga, olandese e spagnola guidata da Parigi.

Intanto irrompe in scena, secondo la Frankfurter Allgemeine, un grande intrigo finanziario internazionale. I Rothschild sono entrati in azione prima che Deutsche Boerse alzasse bandiera bianca. Guidano un'offensiva per l'acquisto di titoli di Deutsche Boerse, in modo da prepararsi a controllarne la maggioranza in vista dell'assemblea degli azionisti il 25 maggio.

(7 marzo 2005)

Il Regno Unito non rinuncia al signoraggio.

La battaglia inglese alla Costituzione Ue
Il leader dei Tory rivela i principali punti dell’opposizione a Bruxelles
Il Regno Unito si prepara per le elezioni nazionali che si terranno il prossimo 5 maggio.
Anche se il dibattito fra i partiti si sta concentrando principalmente su questioni nazionali, come la tassazione, l'immigrazione e i servizi sociali, il partito conservatore britannico e il piccolo partito euroscettico UKIP stanno facendo leva sul malcontento generale della popolazione per rimettere in discussione la posizione della Gran Bretagna nell'Unione europea e per opporre l'approvazione referendaria della Costituzione europea.
Attraverso l'analisi del manifesto elettorale del partito conservatore, ecco i cavalli di battaglia dell'opposizione britannica rispetto all'Ue e al nuovo testo fondamentale.
No all'euro, Si al Pound
Un eventuale governo conservatore assicurerà l'indipendenza della Banca d'Inghilterra nel determinare i tassi di interesse che, mantenendo il pound a dispetto della moneta unica, dipenderanno esclusivamente dagli interessi dell'economia britannica. Un no netto, quindi, per conservare una delle caratteristiche principali della sovranità, il signoraggio.

Riappropriarsi dei poteri ceduti a Bruxelles
Il partito Tory vorrebbe avvalersi, come negli accordi di Schengen, della clausola dell'opting-out al fine di riconquistare la sovranità su alcune politiche controllate da Bruxelles.

Il Regno Unito dovrebbe, per prima cosa, liberarsi dai "vincoli" della politica sociale europea e orientarsi verso una deregolamentazione e una maggiore flessibilità della legislazione sull'occupazione.

I conservatori ritengono inoltre che una politica comune sull'agricoltura e sulla pesca siano insostenibili sia dal punto di vista economico che commerciale.

La politica agricola comune, storicamente, è stata un punto dolente nelle relazioni tra Ue e Regno Unito e il partito conservatore ne richiede sostanziali riforme da Bruxelles.
Per quanto riguarda la politica sulla pesca, il manifesto esplicita chiaramente che è intenzione dei conservatori restaurare il pieno controllo nazionale in questa area.

Una politica estera inglese e non comunitaria
Secondo il leader dei Tories Michael Howard durante il governo Blair la capacità di difendere gli interessi inglesi in politica estera è stata gravemente compromessa. Le relazioni con l'Unione europea sono state mal impostate da Blair mettendo a repentaglio i comuni interessi che legano la Gran Bretagna agli Usa e alla Nato.
I conservatori propongono invece una politica estera e di difesa da svilupparsi nel più ampio contesto dell'alleanza atlantica, senza alcuna velleità o ossessione per un grande unico stato chiamato Europa, bensì convogliando gli sforzi comuni al fine di costruire un'Europa delle nazioni che si impegni per la pace nel mondo.

Opposizione alla Costituzione europea
Dalla posizione adottata fino ad ora, si evince che a prescindere dall'esito delle elezioni nazionali, il partito conservatore inglese, con l'ausilio del piccolo partito euroscettico UKIP, porterà avanti una vigorosa battaglia affinché la Gran Bretagna non inserisca nel proprio ordinamento, per la prima volta nella sua storia, una serie di leggi codificate e scritte in un unico testo, ossia la Costituzione europea.

15 marzo 2005

sabato, aprile 16, 2005

FMI? NO GRAZIE! Mitico NO dell'Argentina

da repubblica

Washington chiede una soluzione per migliaia di risparmiatori colpiti dal "default" dei bond.
Buenos Aires: "Si può stare fuori dall'Fmi"
L'Argentina risponde "no" al G7
'Non rinegoziamo il debito residuo'
I rappresentanti dei cittadini: "La partita non è chiusa"

WASHINGTON - Il G7 chiede ufficialmente di affrontare il nodo delle migliaia di risparmiatori colpiti dal default dei bond che non hanno accettato l'offerta di ristrutturazione, ma l'Argentina tira dritto per la sua strada convinta che anche "fuori dal Fondo esiste vita ed è una splendita vita".

I Sette Grandi vanno in pressing, non a sorpresa, sulla questione degli oltre 24 miliardi di dollari di bond argentini non apportati alla proposta di swap di Buenos Aires, invitando alla rinegoziazione "in linea con le indicazioni fornite dal Fondo Monetario Internazionale" e in "buona fede".

"Il governo non ha allo studio alcuna alternativa per chi è rimasto fuori dall'offerta", risponde da Monaco il presidente argentino Nestor Kirchner, che ripete le posizioni espresse appena due giorni fa al termine di un incontro sulla questione con il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder. E non solo, perchè dal paese sudamericano rincarano la dose affermando che "fuori dal Fondo esiste vita ed è una splendita vita", sottolineando quindi di non temere eventuali contromisure dell'Fmi.

Tuttavia, la posizione del G7, rappresenta un fatto positivo per i risparmiatori e e per i mercati, secondo il ministro dell'Economia, Domenico Siniscalco, che è soddisfatto per il richiamo a Buenos Aires e per l'appoggio ricevuto al summit sull'argomento. Parole esplicite, quelle contenute nel comunicato finale dei lavori, secondo cui "l'Argentina deve affrontare il resto del debito in default", e che sottointendono il blocco di fatto di nuovi finanziamenti del Fondo a Buenos Aires.

"Abbiamo ottenuto di mettere nel comunicato - dice Siniscalco nella conferenza conclusiva del G7 - uno specifico riferimento alla necessità di affrontare subito insieme alle discussioni col Fondo la questione dei rimborsi del debito che non sono stato oggetto di concambio".

Non a caso i rappresentanti dei creditori italiani prendono la palla la balzo: "la partita non è affatto chiusa e siamo pronti a sederci a un tavolo negoziale", afferma il presidente della task force Argentina, Nicola Stock, che è anche co-presidente del Gcab, il comitato globale degli obbligazionisti del paese latinoamericano.
La posizione del G7, continua Siniscalco, "è molto importante non soltanto per i risparmiatori italiani, ma anche per la credibilità delle istituzioni, per non creare in altri Paesi la volontà di seguire la stessa strada argentina".

Si sarebbe cioè "creato un problema evidente di azzardo morale per altri Paesi, tentati a questo punto di seguire questa via molto pericolosa".

La strada scelta dall'Italia, osserva il ministro, "è eminentemente una strada multilaterale, pur non mancando delle pressioni bilaterali. Incassata la menzione, non è questo il risultato principale che è invece costituito dall'accordo con il Fondo, cioè dal negoziato con il Fondo da un lato e la riapertura delle linee di credito dall'altro. Esattamente questo ha occupato più della metà del mio colloquio di ieri con il direttore del Fmi Rodrigo Rato".

(16 aprile 2005)

EURO, grazie di esistere

Sabato 16 Aprile 2005

Conti Pubblici: Monti, Fortuna Che c'e' l'Euro Che Limita i Tassi

Di (Paj/Pn/Adnkronos)

Venezia, 16 apr. - (Adnkronos) - ''Mi limito a dire che in questa fase di incertezza, e di problemi che emergono con una certa chiarezza per i conti pubblici, dovremmo essere tutti in grado di apprezzare il vantaggio di appartenere all'euro che impedisce a questa situazione di riflettersi maggiormente sui tassi d'interesse, cosa che in assenza delle moneta unica avverrebbe''. Lo ha detto a margine dell'Aspen European Dialogue, oggi al Lido di Venezia, Mario Monti presidente dell'Univesita' Bocconi.

Fazio Senatore a vita

Sabato 16 Aprile 2005

Banche: Sapelli, Ciampi Nomini Fazio Senatore a Vita

Di (Tog/Col/Adnkronos)

Milano, 16 apr. (Adnkronos) - Carlo Azeglio Ciampi nomini Antonio Fazio senatore a vita. A proporre un futuro a palazzo Madama per il governatore della Banca d'Italia e' Giulio Sapelli, storico dell'economia, attuale presidente della Meta Modena e gia' presidente della Fondazione Mps in una intervista alla ADNKRONOS. Sapelli auspica ''un'illuminazione del Presidente della Repubblica: Fazio dovrebbe essere nominato senatore a vita. Sarebbe una soluzione onorevole per un uomo che certo ha avuto dei meriti in passato. Mi rendo conto che sono affermazioni pesanti'', continua Sapelli, ma si tratta di una soluzione che ''salverebbe la Banca d'Italia''. Sapelli vedrebbe bene al posto dell'attuale governatore ''uno degli uomini dell'attuale Direttorio della Banca: Pierluigi Ciocca. E' un bravo storico e un brillante economista: sarebbe un grandissimo banchiere centrale''.

Sabato 16 Aprile 2005

Banche: Sapelli, Ciampi Nomini Fazio Senatore a Vita (2)

Di (Tog/Col/Adnkronos)

(Adnkronos) - La vicenda Antonveneta, continua Sapelli, prova ''la debolezza non del sistema, ma della corporate governance e del concetto di legalita'. Abn Amro, come tutte le banche olandesi, ha una spiccatissima vocazione internazionale, perche' conta su un mercato interno ridotto. Antonveneta e' una banca con contenuti di eccellenza per i servizi alle imprese: gli olandesi vi hanno visto la possibilita' di entrare nel mercato italiano attraverso una via non comune. Hanno trovato un avversario come la Bpl'', che non e' contendibile. ''Quotare qualcosa che non e' scalabile -continua Sapelli- e' un escamotage molto piu' inquietante della finanza creativa''.


Sabato 16 Aprile 2005

Banche: Sapelli, Ciampi Nomini Fazio Senatore a Vita (3)

Di (Tog/Col/Adnkronos)

(Adnkronos) - Meno delicata e diversa dalla vicenda Antonveneta, secondo Sapelli, e' la battaglia in corso per conquistare la Banca Nazionale del Lavoro. ''Gli spagnoli del Bbva -afferma lo storico- sono azionisti storici della banca e credo si siano mossi per dare stabilita' e prospettive di sviluppo a una banca che soffre da tempo di una profonda instabilita'. Non dimentichiamo che non ha un amministratore delegato e che vede due patti, l'un contro l'altro armati''.

Sabato 16 Aprile 2005

Banche: Sapelli, Ciampi Nomini Fazio Senatore a Vita (4)

Di (Tog/Col/Adnkronos)

(Adnkronos) - La difesa dell'italianita' delle banche, secondo Sapelli, e' un problema che non si pone: ''Falsifico il fatto che si debba difendere l'italianita' delle banche -afferma- solo le banche locali, le popolari vere, le casse rurali devono restare italiane'', sulla scia di quanto accade in Germania. Per le banche piu' grandi, continua l'ex consigliere dell'Eni, non ha senso ragionare in un'ottica strettamente nazionale: ''Occorrono banche europee e internazionali con pezzi di azionariato francese, spagnolo, inglese, italiano....dobbiamo far si' invece che in Italia operino banche piu' efficienti per le famiglie e per le imprese''.

Infatti...non drammatizzerei neanche io

Sabato 16 Aprile 2005, 18:21
Borse: Fazio, Non Drammatizzerei Calo

(AGI) - Washington, 16 apr. - Il Governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, non mostra eccessiva preoccupazione per il brusco calo subito ieri da tutte le Borse mondiali. "Non starei a drammatizzare", taglia corto al termine del G7. In particolare, secondo il numero uno di Palazzo Koch, il secco ridimensionamento dei listini e' quasi interamente da attribuire alla "caduta del titolo Ibm (NYSE: IBM - notizie) che ha presentato profitti inferiori al previsto. Puo' darsi", aggiunge, "che il price earning si fosse spinto un po' troppo in alto. E tutto cio' si e' riflesso sugli altri titoli tecnologici". Ma, in generale, la situazione resta tranquilla. Si e' trattato di "un semplice aggiustamento", assicura Fazio. Il Governatore sottolinea anche come nel quarto trimestre dell'anno scorso gli investimenti in computer siano aumentati del 50% su base annua". Ed e' dunque "difficile che vadano avanti a questi ritmi se non altro per un effetto di saturazione". Ma lanciare allarmi, sembra concludere il numero uno dell'istituto centrale, appare davvero prematuro, anche perche' l'economia mondiale continua a rimanere in buona salute. (AGI) -

Infatti...perchè dovresti?

Sabato 16 Aprile 2005

Banche: Fazio, Non Ne Parlo

(AGI) - Washington, 16 apr. - "Non parlo di banche". Il Governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, evita attentamente di rispondere a qualsiasi domanda sulla situazione bancaria in Italia, dopo le Opa lanciate da Abn Amro (Amsterdam: AAH.AS - notizie) su Antonveneta e da Bbva su Bnl (Milano: BANI.MI - notizie - bacheca) . In particolare, all'inquilino di Palazzo Koch era stato chiesto di commentare il probabile ricorso che Abn si accinge a presentare a Bruxelles contro presunte discriminazioni subite dalla Banca d'Italia. (AGI) -

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Sabato 16 Aprile 2005
Fazio: No Comment Su Italia, Bene Economia Internazionale

(AGI) - Washington, 16 apr. - Il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, appena giunto a Washington per le riunioni del G7 e dell'FMI, evita accuratamente di rispondere a qualsiasi sollecitazione dei giornalisti sull'andamento dell'economia e dei conti pubblici italiani, e si limita ad osservare che "l'economia internazionale va molto bene e quella americana e' in forte espansione. Qui - osserva il numero uno di Via Nazionale - si studia l'economia internazionale, quella italiana si studia a Roma". Poi, di fronte all'insistenza delle domande, si rivolge al suo seguito: "Allora, andiamo", dice; e si allontana. -

venerdì, aprile 15, 2005

L'euro di carta? nel 2010

da lapadania.com

Le incredibili lungaggini dei banchieri europei
Tremonti si arrabbia L'euro di carta dal 2010?

L'ipotesi di banconota da un euro scaturita da un sondaggio
«È inutile l'analisi a lungo termine degli effetti dell'inflazione se poi ci sono tempi così estesi nel valutare una misura che sarebbe efficace per contenerla. In questo caso, davvero il tempo è moneta». Ieri, a margine della riunione dei ministri finanziari Ue, Giulio Tremonti ha duramente criticato la decisione della Banca centrale europea di spostare al 2010 ogni valutazione sull'introduzione della banconota da 1 euro. Una scelta attendista che fa a pugni con il pieno apprezzamento espresso, da quasi tutti i ministri finanziari europei, alla proposta del collega italiano.

[Data pubblicazione: 08/10/2003]

mercoledì, aprile 06, 2005

Ma siiiì! Svendiamo tutto! Almeno bastasse...

originale

"Il Foglio" dell'11 marzo 2005

Lo Stato ha un patrimonio di 1771 miliardi, privatizzare si deve

Le recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla privatizzazione di Enel e Poste hanno riportato al centro del dibattito di politica economica la questione del debito. Ciò è senz'altro un bene. E' un bene per ragioni banalmente domestiche. Ed è un bene alla luce della revisione in corso del Patto di Stabilità europeo; una revisione "sofferta" che proprio sul nodo del debito potrebbe toccare direttamente l'Italia.
Intendiamoci, dietro l'angolo del "nuovo" Patto, il cui varo (salvo colpi di scena) è atteso nel Consiglio europeo del 22 marzo, non c'è una stretta significativa su tempi e modalità di rientro per i paesi che, come l'Italia, hanno le posizioni debitorie più alte.
E tuttavia è chiaro che, anche con una riforma complessivamente soft, dopo marzo i riflettori europei saranno puntati sul parametro del debito un po' più di prima. Da questo punto di vista, nell'annunciare le prossime mosse nel campo delle dismissioni, Berlusconi ha giocato d'anticipo. E ha rilanciato con forza un tema di dibattito un po' trascurato negli ultimi mesi, tanto più se si considera che quello del debito prima ancora che un problema di vincoli europei è un grande problema nazionale.
Per effetto del maggiore stock di passività accumulate l'Italia paga ogni anno interessi finanziari pari a circa 2 punti di Pil in più rispetto a Francia e Germania, 30 miliardi di euro in valore assoluto. In altre parole, è come se ogni anno il paese dovesse fare una Finanziaria aggiuntiva rispetto ai suoi principali concorrenti.
Per avere ragione di questo handicap (handicap che contribuisce per la sua parte a rendere il sistema paese meno competitivo) occorre certamente, in primo luogo, generare un adeguato avanzo primario e stimolare la crescita economica con opportuni provvedimenti, ma è essenziale anche privatizzare. Il governo ha presentato in luglio un programma di dismissioni incisive per i prossimi quattro anni con l'obiettivo di portare il rapporto debito-Pil sotto la soglia psicologicamente sensibile del 100%. Ma il programma non è stato seguito da un vero e proprio dibattito, né a destra né a sinistra. E' la conferma, questa, che il tema delle privatizzazioni è difficile da affrontare in Italia. E' un tema dove il pendolo oscilla invariabilmente tra il pregiudizio ideologico e lo scetticismo. Per molti il termine stesso di privatizzazioni è sinonimo di liberismo selvaggio, di quel thatcherismo che a sua volta viene associato ad operazioni socialmente penalizzanti, dimenticando che anche i governi laburisti incluso quello di Tony Blair hanno privatizzato. Per altri, un nuovo ciclo di dismissioni è quasi impossibile perché con la cessione al mercato delle industrie a partecipazione statale il "materiale" pubblico disponibile si sarebbe praticamente esaurito. Pregiudizi ideologici e scetticismo sono alimentati a loro volta da una scarsa informazione sul potenziale di dismissioni a disposizione.. Succede infatti che lo Stato non conosca abbastanza che cosa possiede. Dopo il tentativo della Commissione Cassese nel 1986, solo di recente è stata avviata una radiografia dello stato patrimoniale pubblico, il Conto patrimoniale delle Amministrazioni Pubbliche. Per anni l'Italia si è comportata come una azienda nella quale la direzione finanziaria è divisa a metà e i manager del passivo non parlano con quelli dell'attivo. Il Ministero delle Finanze si occupava della gestione del patrimonio, quello del Tesoro della gestione del debito. Solo con la riforma Bassanini e l'accorpamento dei due dicasteri nell'Economia per la prima volta è emersa l'esigenza di far parlare le due poste dello stato patrimoniale pubblico. E' risultato così che l'attivo italiano è pari al 137% del Pil (1771 miliardi) contro un rapporto debito-Pil del 106,2%. In paesi dotati di una pubblica amministrazione efficiente come il Regno Unito il rapporto attivo-Pil non raggiunge invece il 60% (si è dimezzato in 25 anni di privatizzazioni), analogamente al rapporto debito-Pil. Il che dimostra che uno Stato efficiente e liberale moderno può funzionare con la metà dei beni (e del debito) posseduti oggi dal settore pubblico italiano.
Immobili, concessioni, crediti, infrastrutture materiali e immateriali: se si allarga il perimetro dell'analisi oltre le partecipazioni finanziarie dello Stato che sono state oggetto di dismissione negli anni '90, le stime dicono che c'è molto nell'attivo pubblico e che un nuovo significativo ciclo di privatizzazioni per quanto complesso non è irrealistico. Spesso i beni posseduti dallo Stato costano più di quanto rendono. A chi non è capitato girando per una città come Roma di imbattersi in un palazzo storico semiabbandonato o in una vecchia caserma malutilizzata? Dalla cessione di alcuni beni deriverebbe non solo una riduzione dello stock di debito ma anche un risparmio di spesa e un aumento della crescita grazie alla migliore allocazione delle risorse. Come ha scritto di recente Rainer Masera (Il sole 24 Ore, 24 novembre) l'impiego di tecniche finanziarie innovative, quali ad esempio l'asset liability management, consentirebbe di aggredire il problema del debito cogliendo le opportunità offerte da mercati finanziari sempre più sofisticati. La sfida delle privatizzazioni insomma può essere raccolta.
Alla fine degli anni Ottanta Guido Carli spiegava come "l'unica ricetta che consenta una riduzione del debito pubblico e degli oneri per interessi rispettosa del mercato è l'alienazione dei cespiti patrimoniali posseduti dal settore pubblico". In fondo, aggiungeva Carli, "la Destra storica che ebbe il merito di gestire i primi anni dello Stato unitario fece proprio così". Oltre un secolo dopo la strada per avere ragione del debito e consentire alla nave dell'economia di riprendere la rotta della crescita non è cambiata.