originale
"Il Foglio" dell'11 marzo 2005
Lo Stato ha un patrimonio di 1771 miliardi, privatizzare si deve
Le recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla privatizzazione di Enel e Poste hanno riportato al centro del dibattito di politica economica la questione del debito. Ciò è senz'altro un bene. E' un bene per ragioni banalmente domestiche. Ed è un bene alla luce della revisione in corso del Patto di Stabilità europeo; una revisione "sofferta" che proprio sul nodo del debito potrebbe toccare direttamente l'Italia.
Intendiamoci, dietro l'angolo del "nuovo" Patto, il cui varo (salvo colpi di scena) è atteso nel Consiglio europeo del 22 marzo, non c'è una stretta significativa su tempi e modalità di rientro per i paesi che, come l'Italia, hanno le posizioni debitorie più alte.
E tuttavia è chiaro che, anche con una riforma complessivamente soft, dopo marzo i riflettori europei saranno puntati sul parametro del debito un po' più di prima. Da questo punto di vista, nell'annunciare le prossime mosse nel campo delle dismissioni, Berlusconi ha giocato d'anticipo. E ha rilanciato con forza un tema di dibattito un po' trascurato negli ultimi mesi, tanto più se si considera che quello del debito prima ancora che un problema di vincoli europei è un grande problema nazionale.
Per effetto del maggiore stock di passività accumulate l'Italia paga ogni anno interessi finanziari pari a circa 2 punti di Pil in più rispetto a Francia e Germania, 30 miliardi di euro in valore assoluto. In altre parole, è come se ogni anno il paese dovesse fare una Finanziaria aggiuntiva rispetto ai suoi principali concorrenti.
Per avere ragione di questo handicap (handicap che contribuisce per la sua parte a rendere il sistema paese meno competitivo) occorre certamente, in primo luogo, generare un adeguato avanzo primario e stimolare la crescita economica con opportuni provvedimenti, ma è essenziale anche privatizzare. Il governo ha presentato in luglio un programma di dismissioni incisive per i prossimi quattro anni con l'obiettivo di portare il rapporto debito-Pil sotto la soglia psicologicamente sensibile del 100%. Ma il programma non è stato seguito da un vero e proprio dibattito, né a destra né a sinistra. E' la conferma, questa, che il tema delle privatizzazioni è difficile da affrontare in Italia. E' un tema dove il pendolo oscilla invariabilmente tra il pregiudizio ideologico e lo scetticismo. Per molti il termine stesso di privatizzazioni è sinonimo di liberismo selvaggio, di quel thatcherismo che a sua volta viene associato ad operazioni socialmente penalizzanti, dimenticando che anche i governi laburisti incluso quello di Tony Blair hanno privatizzato. Per altri, un nuovo ciclo di dismissioni è quasi impossibile perché con la cessione al mercato delle industrie a partecipazione statale il "materiale" pubblico disponibile si sarebbe praticamente esaurito. Pregiudizi ideologici e scetticismo sono alimentati a loro volta da una scarsa informazione sul potenziale di dismissioni a disposizione.. Succede infatti che lo Stato non conosca abbastanza che cosa possiede. Dopo il tentativo della Commissione Cassese nel 1986, solo di recente è stata avviata una radiografia dello stato patrimoniale pubblico, il Conto patrimoniale delle Amministrazioni Pubbliche. Per anni l'Italia si è comportata come una azienda nella quale la direzione finanziaria è divisa a metà e i manager del passivo non parlano con quelli dell'attivo. Il Ministero delle Finanze si occupava della gestione del patrimonio, quello del Tesoro della gestione del debito. Solo con la riforma Bassanini e l'accorpamento dei due dicasteri nell'Economia per la prima volta è emersa l'esigenza di far parlare le due poste dello stato patrimoniale pubblico. E' risultato così che l'attivo italiano è pari al 137% del Pil (1771 miliardi) contro un rapporto debito-Pil del 106,2%. In paesi dotati di una pubblica amministrazione efficiente come il Regno Unito il rapporto attivo-Pil non raggiunge invece il 60% (si è dimezzato in 25 anni di privatizzazioni), analogamente al rapporto debito-Pil. Il che dimostra che uno Stato efficiente e liberale moderno può funzionare con la metà dei beni (e del debito) posseduti oggi dal settore pubblico italiano.
Immobili, concessioni, crediti, infrastrutture materiali e immateriali: se si allarga il perimetro dell'analisi oltre le partecipazioni finanziarie dello Stato che sono state oggetto di dismissione negli anni '90, le stime dicono che c'è molto nell'attivo pubblico e che un nuovo significativo ciclo di privatizzazioni per quanto complesso non è irrealistico. Spesso i beni posseduti dallo Stato costano più di quanto rendono. A chi non è capitato girando per una città come Roma di imbattersi in un palazzo storico semiabbandonato o in una vecchia caserma malutilizzata? Dalla cessione di alcuni beni deriverebbe non solo una riduzione dello stock di debito ma anche un risparmio di spesa e un aumento della crescita grazie alla migliore allocazione delle risorse. Come ha scritto di recente Rainer Masera (Il sole 24 Ore, 24 novembre) l'impiego di tecniche finanziarie innovative, quali ad esempio l'asset liability management, consentirebbe di aggredire il problema del debito cogliendo le opportunità offerte da mercati finanziari sempre più sofisticati. La sfida delle privatizzazioni insomma può essere raccolta.
Alla fine degli anni Ottanta Guido Carli spiegava come "l'unica ricetta che consenta una riduzione del debito pubblico e degli oneri per interessi rispettosa del mercato è l'alienazione dei cespiti patrimoniali posseduti dal settore pubblico". In fondo, aggiungeva Carli, "la Destra storica che ebbe il merito di gestire i primi anni dello Stato unitario fece proprio così". Oltre un secolo dopo la strada per avere ragione del debito e consentire alla nave dell'economia di riprendere la rotta della crescita non è cambiata.